Non avevamo previsto di tornare in Sicilia quest’inverno.
Soprattutto perché ci siamo stati pochi anni fa, dopo una dantesca tempesta di neve che ci ha regalato strade bloccate, accessi complicati e l’emozione unica di partire con gli sci ai piedi da Milo, a 750 metri sul livello del mare, slalomeggiando tra mimose, cactus e ginestre imponenti. Sotto allo sguardo fumante del vulcano più alto d’Europa (3400 metri di irascibilità geologica) abbiamo anche sciato una delle migliori nevi primaverili degli ultimi anni, caduta su un terreno divertentissimo, avvolto da luci e atmosfere quasi extraterrestri.
Perché rischiare di macchiare il ricordo di un’esperienza così intensa con una memoria di qualità inferiore?
Avevamo anche appena salutato le Dolomitiche, galleggiando con la loro bellezza soprannaturale sopra un’immensa distesa di nuvole, ci avevano regalato uno sci di qualità, lontano dalla folla. È incredibile: scio in questa parte delle Alpi italiane da oltre vent’anni, e non le avevo mai viste così. È stato come scoprire un lato sconosciuto della persona che ami, che pensavi di conoscere alla perfezione e che, nonostante un inverno difficile, riesce ancora a sorprenderti, a spiazzarti.
Come poteva un’isola in mezzo al Mediterraneo offrire di meglio della fiamma di un amore che si ravviva?
Eppure, la voce di François al telefono grondava di emozione e anticipazione, tanto che 24 ore dopo l’ultimo categorico: «Amici, venite…» siamo atterrati a Catania per quello che sarebbe diventato molto più di un semplice viaggio esotico con gli sci ai piedi. Ancora oggi fatichiamo ad associare immediatamente la Sicilia allo sci ma sbagliamo. Su quest’isola lo sci non è solo uno sport o un’attività di montagna: è un’esperienza mistica, un viaggio esoterico che sta anni luce lontano da tutto ciò che ho vissuto finora, almeno sulla neve.
Qui esco completamente dai canoni di una classica meta sciistica. Un’isola la cui storia affonda le radici nell’humus dell’antichità, tanto ricca e affascinante quanto la vegetazione che la ricopre. Qui tutti i nostri riferimenti si sfaldano. La mattina si può nuotare in un mare cristallino che d’inverno ritrova una pace senza tempo per poi sciare fino al tramonto sotto una luce calda e inusuale per noi sciatori. Volendo, si possono anche surfare onde perfette.
È bello pensare che, in un mondo sovraffollato e omologato, esistono ancora tesori nascosti sotto ai nostri occhi e che la tenacia e il talento di una guida come François ama scoprirli e condividerli con noi.
Come ogni tesoro però, anche l’Etna si fa proteggere.
Partiamo e mi sento dentro L’orda del vento: nella mia testa, nel mio corpo, nelle gambe, nella schiena, riecheggiano le parole del libro di Alain Damasio. Da dove viene il vento che si scatena su questa montagna strana, coperta di ceneri, crateri e rocce nere che, a tratti, squarciano lo strato di neve sporca su cui faccio scivolare le mie pelli? Le nuvole svelano per un attimo questo universo da fantascienza per poi nasconderlo di nuovo nella nebbia opaca che ci avvolge. Seguo la traccia lasciata dal gruppo, che svanisce qualche metro più avanti. Persino Layla sembra essersi volatilizzata. Più su, più lontano, li intravedo: al riparo di un canalone, dietro una roccia dall’aspetto inquietante. Mi aspettano, nel silenzio tagliato solo da un vento che scaccia ogni parola a quel punto superflua. Un sorso d’acqua, un pezzo di barretta…si riparte.
L’alternanza tra visioni nitide e cecità totale ha qualcosa di profondamente destabilizzante. Come se la natura stessa giocasse con noi, con i nostri sensi e con la nostra volontà. Si passa dal riempirsi gli occhi con paesaggi maestosi al dubbio sull’utilità, anzi sull’intelligenza, di quello che stiamo facendo. Mi sembra di vivere in una realtà alternativa, dentro il negativo di una vecchia foto. Forse sto delirando ma sono tutti pensieri che mi assalgono durante la salita. Almeno sono diversi dalle solite canzoni sceme che mi risuonano in testa durante le lunghe risalite e comunque, nelle mie orecchie, non c’è altro che il vento.
Persino urinare diventa una mezza sfida, e per una volta Layla è quasi avvantaggiata. Ma la cosa peggiore è la cenere sulla neve, che si incolla alle pelli e crea zoccoli sotto gli sci. Mi sento in uno di quei sogni d’infanzia dove devi fuggire da qualcosa di spaventoso ma le gambe ti si fanno sempre più pesanti. Solo che qui non ti svegli nel letto, magari in lacrime ma con tua madre che ti consola. Devi stare attento a non far volare via un guanto mentre cerchi un pugno di pistacchi o nocciole nella tasca dei pantaloni. Qualche istante fa il sole illuminava ancora il mare turchese in cui abbiamo nuotato quella stessa mattina. Com’è possibile che le nuvole ci abbiano già inghiottiti?
All’improvviso, siamo nel mondo di La Strada di Cormac McCarthy, e io mi sento quel residuo d’umanità che avanza verso un destino incerto.
Se avessi il minimo talento da narratore, cercherei di descrivervi l’eccesso visivo su cui ci muoviamo. Cenere e neve: due elementi che non dovrebbero mai incontrarsi su scala paesaggistica, ma che qui si fondono in un quadro in continuo cambiamento.
Un’emozione intensa quanto il freddo che ci avvolge mi inumidisce gli occhi e copre il nostro piccolo gruppo in un silenzio ipnotico.In questo pomeriggio ormai al crepuscolo il tramonto color sangue lascia spazio a un fiume di lava che scorre a poche decine di metri da noi.Sopra le nostre teste, il cratere del vulcano si apre come una ferita su un immenso mare di nuvole e ruggisce come all’alba del mondo.
Siamo tutti entrati in qualcosa di potente, profondamente emozionante. Un drago di lava si muove e fuma in un sussurro organico. Non riesco a distogliere lo sguardo. Le onde di calore che emana si fondono con quelle più intime e personali: gratitudine, gioia pura, la consapevolezza di essere qui, in questo momento.
Quasi ci dimentichiamo di scattare qualche foto.
Sulla via del ritorno, una pioggia sottile tamburella sulla giacca, inzuppando la foresta e la vegetazione, che nella penombra della sera si dissolve e si trasforma in qualcos’altro. Mi rifiuto di accendere la lampada frontale: preferisco immergermi nell’istante, anche se inciampo di continuo e riesco a restare in piedi solo grazie ai bastoncini. Il gruppo è ormai lontano e, a tratti, scorgo ancora la luce di Clément e Layla che chiudono la fila.
Io non ne posso più ma le gambe non mi hanno mai tradito e so che posso continuare, nonostante il ginocchio malandato e il mio pessimo carattere. Mi sento come un vecchio solitario in fondo alla catena alimentare. Se fossi un erbivoro, sarei la prossima preda.
Alla consapevolezza di questa mia vulnerabilità mi si stringe il cuore.
Ho adorato questo gioco selvaggio di salita verso la vetta, tra valloni maestosi scolpiti dal vento come onde di neve morbida, dove ci siamo impegnati a tracciare curve eleganti. Poi l’ebrezza di navigare nella nebbia umida, dove emergono strani scogli di neve, come relitti misteriosi. E infine un altro livello ancora, dove spuntano le prime forme di vita vegetale.
È incredibile quando lo sci si trasforma in un viaggio iniziatico, una sequenza di sensazioni fisiche e visive.
Un gioco selvaggio, il vero wild ski. Un modo di muoversi semplice, istintivo, in un ambiente spettrale.
✒️ Bruno Compagnet
📸 Layla Kerley
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